Lunedì 24 febbraio 2020 è una data che resterà per sempre scolpita nella mia vita perché mi ha catapultata violentemente da un film a colori ad un film in bianco e nero.
Io e la mia famiglia eravamo felici e spensierati in vacanza in Val d’Aosta e non avremmo mai immaginato che il sogno si sarebbe improvvisamente interrotto a causa di una pandemia che avrebbe cambiato la vita di molte persone, famiglie e comunità intere.
Essendo in un’isola felice, tra neve soffice e laghetti alpini, non avevamo la percezione del dramma che stava per accadere; si cominciava a diffondere la notizia di uno strano virus proveniente dalla Cina, chiamato Coronavirus. Io e la mia famiglia siamo stati travolti da questa emergenza sanitaria quando mia mamma ha ricevuto l’ordine di servizio per il rientro immediato all’ospedale in cui lavora. Siamo rimasti impietriti, delusi, ma siamo diventati subito consapevoli della gravità e serietà del problema. Ci siamo immediatamente messi sulla via del ritorno. Da quel giorno, la mamma ha vissuto in ospedale sette giorni su sette per settimane.
Man mano che passavano le ore, si parlava sempre più incalzantemente di questa notizia allarmante, con l’ipotesi che le scuole sarebbero rimaste chiuse dopo le vacanze di Carnevale. C’erano assalti ai supermercati per fare le scorte di viveri, si stavano diffondendo angoscia e paura, ma anche senso di smarrimento e di impotenza.
Le persone non sapevano che cosa stesse succedendo, nessuno poteva saperlo…
Hanno iniziato a diventare obbligatorie le mascherine per tutti; io non avevo mai pensato di metterne una, a meno di diventare da grande medico o chirurgo.
Noi studenti siamo stati alcuni giorni segregati in casa senza fare scuola, senza ipotesi chiare, previsioni e certezze; assolutamente inconsapevoli che non ci saremmo più incontrati e abbracciati. Non sapevamo che il nostro percorso della Scuola Secondaria di Primo Grado si sarebbe interrotto e concluso così, sacrificando l’esplosione della gioia di stare insieme, senza nemmeno esserci salutati, trasportati dalle emozioni che avevamo immaginato di provare e condividere nell’affrontare la prova dell’esame finale e poi nel congedarci dalla nostra scuola, come gli altri anni, con risate e abbracci in cortile.
Gli scienziati hanno iniziato subito a studiare questo virus ignoto, che contagiava in maniera esponenziale e molto aggressiva, con conseguenze gravissime per la salute.
Le persone cominciavano a morire a causa di questo mostro invisibile; all’inizio sembrava pericoloso soprattutto per le persone anziane e abbiamo avuto paura per i nostri nonni, che dovevamo proteggere.
Dopo meno di un mese, le scuole si sono organizzate per avviare la didattica a distanza (DAD): un metodo nuovo, ma indispensabile che sarebbe diventato familiare. A tutte le età ci si è abituati all’uso quotidiano della tecnologia come strumento di comunicazione principale, anche lo smart working si è diffuso.
Con il lockdown, come durante la guerra che hanno vissuto i nostri bisnonni, abbiamo dovuto vivere in regime di coprifuoco; passavamo giorni e settimane costretti a stare in casa senza poter assolutamente uscire. I mesi continuavano ad aumentare fino a quando si è cancellata la certezza di ritornare a scuola, proprio come quando si scrive sulla sabbia e un’onda passa e cancella tutto.
I giorni erano quasi indistinguibili, scanditi dalla medesima routine, interrotta solo da momenti di creatività culinaria: mi sono scoperta appassionata di pasticceria. I mesi iniziavano però ad essere tanti, per questo la mia testa non riusciva più a ricordare la normalità a cui ero abituata né a pensare a come sarebbe stato ritornare a vivere senza mascherina, senza il suono continuo delle sirene delle ambulanze, senza i giornalisti che non facevano altro che parlare di Covid-19.
Durante il primo lockdown non mi sentivo me stessa: non mi divertivo con gli amici, non uscivo né avevo contatti con loro, ero priva di libertà, infatti se fossi uscita di casa avrei persino preso la multa…
È stato molto doloroso e triste non poter esprimere i miei sentimenti attraverso i consueti abbracci, strette di mano, carezze, contatti umani in generale, soprattutto con i miei familiari. Gli sguardi sono diventati più intensi ed espressivi.
Non riuscivo a non pensare al passato ma anche al futuro.
Le priorità, nella mia testa, erano del tutto cambiate: non era più importante arrivare puntuale a scuola, andare a letto presto la sera durante la settimana, organizzarmi con i compiti; erano diventate: mettere sempre la mascherina, igienizzare sempre le mani, non uscire di casa, aiutare i genitori nella gestione delle faccende domestiche e sperare al più presto di tornare alla normalità.
I miei desideri e bisogni di socialità non erano più possibili da realizzare in un tempo relativamente breve, ma la fatica stava nel fatto che non si sapeva quando si sarebbero potuti avverare. Anche se la mia unica aspirazione, in sintesi, era tornare al più presto alla quotidianità perduta.
L’incertezza faceva ormai parte di tutti noi: non si sapeva quando si avrebbe avuto di nuovo la possibilità di tornare a scuola, uscire di casa, togliere le mascherine, smettere di fare smart working; non venivano prese decisioni in merito alle modalità di espletamento degli esami di terza media e universitari… insomma, quando saremmo stati nuovamente liberi.
Essere totalmente priva di libertà non mi era mai successo, ora ho capito molte cose in più rispetto a prima. Ho capito e capisco tuttora come ci si sente quando si è “sottomessi”. Penso sia scontato e inutile dire che è molto brutto perché non si è più padroni di sé stessi, il che è la cosa più grave che si possa subire. In questa situazione però riconosco che sia indispensabile e responsabile rispettare le norme di distanziamento sociale.
In quei mesi sognavo di essere una farfalla: esternamente molto piacevole da osservare per molti colori, ma soprattutto libera, padrona di sé stessa, spensierata, indipendente…
Questa pandemia, soprattutto a noi ragazzi ha creato ferite e molte ansie per il futuro.
Sento che la mia ferita è abbastanza profonda e peggiora ogni giorno che passa stando sempre in casa e facendo la didattica a distanza: il taglio ritorna sanguinante e vivo. Però quando vado a scuola, parlo con i miei coetanei, esco a fare una passeggiata o dipingo, la mia ferita pian piano si cicatrizza.
Spero vivamente che la mia ferita guarisca presto e che quindi si torni alla normalità!
Molte volte ripenso al futuro: quello vicino e quello più lontano. Con il primo intendo cosa farò e mi aspetterà nei prossimi giorni, ore o minuti, ad esempio cosa fare il sabato sera…
Per il futuro più lontano intendo quale università frequenterò quando sarò grande, quando farò la patente, quando inizierò a lavorare, quando costruirò la mia futura famiglia… In questa situazione così monotona vorrei già essere ventisettenne, età in cui potrei non avere pensieri né per la scuola, né per l’università già conclusa, ma solo l’impegno del lavoro.
L’esperienza che stiamo vivendo mi ha insegnato a non dare più niente per scontato, a cogliere ogni minimo aspetto positivo che la vita ci offre. Ha spostato la scala delle priorità sull’importanza della salute, del rispetto delle regole per la salvaguardia di sé stessi e degli altri.
Sento che devo combattere la rassegnazione che ci appiattisce e devo trovare la fiducia di credere nel futuro, affinché il film in bianco e nero torni ad essere a colori.