Sangue misto

Federico Pecis

La luce riempie muove tra capelli ricordi di noi stessi ormai persi.
Ballando in punta di piedi verso un binario, che pensi costeggi e corteggi oceani,
attraversi cuori interi e superi esterni o afflitti problemi.
Così non fu.
Questa mancanza, temporale temporaneo, rese bianca la stanza,
riempì falsamente la sostanza di giorni che dei più gioiosi dovevano essere,
lasciando la festa un ricordo nero, opposto,
di fantasmi in mente pieni; da portar a pensare che nel suo male sia disabitata, frutto di un incubo, truffa, forse inventata?
La difficile vita portò, più che in lei, negli altri viva incertezza.
Tempo di temere e tener in cuor sospiri, pesi d’aria.
Attese notti insonni buttate all’aria.
Lo specchio schiacciato, secco, provocò uno struscio piovoso, che solchi lasciò nelle rosacee guance e nelle brune menti, spezzando il gambo di fiori sulla roccia sbocciati e di terre e cieli ormai in ciliegio fioriti.
Segni profondi, sempre lasciano, frutti di un amore reso realtà, che non può vivere la mente di esterni osservatori che non hanno concepito quest’anima, che come aria in tempesta si appoggia sulla fatica di una vita esile, come quella di un padre che amato deve lasciare la sua, per la famiglia, ad un’impresa edile.
Cosa ti rende così vita o Vita, forse tu stessa Vita?
Ci porti a guardarla nella tua fantasia, a tenerla vicina come bimbi con la tv.
Ci porti a saltar la cena per quanto pensiamo abbia sofferto, nonostante la sua sicurezza e armata luce.
Sensi e bugie, fini a se stessi, ci allontanano dalla verità, portandoci a pensare una diversa realtà.
Pensi di menare lontano o affievolire le nostre virtù di calma,
pensando che fossimo noi in fuga, furia e rabbia.
Sbaglia.
Noi abbiamo speranza finché moriremo.
L’ultima ma che ci illumina nel vuoto dandoci scheletro e fegato, che sollevano come l’alta marea tutte le barche, che rendono vero il cuore di un uomo, che non si volta o cambia come quello di un ragazzo che prova a cucirsene sempre uno nuovo, ma che lottando con segni di lotta in volto berrà, terrà cura della beatitudine della sua creatura, la quale attingerà da noi un amore, come quello dal seno di madre donato.
Non si è mai pronti a fare ciò che bisogna fare veramente.
Amare è come accettare il cambiamento delle foglie.
Esse vivono sapendo che dopo il cadere, lo spezzarsi e il morire, dato da freddi colpi, che lividi in corpo e rami raggrinziti lasciano, possono rinascere.
Possono essere raccolte.
Possono lasciare una rimembranza, come il crollo di un faraglione nel mar, che nuova visione crea.
O come la morte che stravolge un futuro ma che di sicuro non soffoca in bassa marea.
Amare rende sì forti ma in altri momenti sì deboli.
Non è da pensare, però, che il debole non sappia vivere il suo futuro.
Esso rimarrà sempre toccato da ciò che ha vissuto.
Da ciò trarrà col passare del tempo bellezza e importanza; il suo cuore sarà in rovine, ciò gli ricorderà che nonostante sia crollato non potrà mai morire e che rimarrà per sempre accompagnato di grandezza come in Roma le antiche rovine.
Inoltre saprà donar vita come la piccola Anna, come il suo immenso tocco caldo nel palmo di una mano dal pallido sangue, che implora solo non finisca quell’eterno flusso vitale da cui trarre sostentamento e vita,
capendo che il tempo non esiste, come nei bambini, ma che ormai ha impiegato troppo tempo per arrivarci e adesso non avrà più tempo per pensarci.
Bisogna non limitarsi alla solita esistenza o abitudine che radica si in noi senza accorgercene.

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